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La rinascita dei
Colori della Venere

« Una donna non con uman volto. Da’ Zefiri lascivi spinta a proda

Gir sopra un nicchio; e par che ‘l ciel ne goda. Vera la schiuma e vero il mar diresti,

E vero il nicchio e ver soffiar di venti: La dea negli occhi folgorar vedresti,

E ‘l ciel ridergli a torno e gli elementi. L’Ore premer l’arena in bianche vesti,

L’aura incresparle e’crin distesi e lenti: Non una, non diversa esser lor faccia,

Come pare che a sorelle ben confaccia »

(Poliziano, Le stanze per la Giostra)

 

Restaurare, far rivivere, ripristinare qualcosa che altrimenti andrebbe perduto, ricostruire. La passione per l’arte era per Giulia qualcosa che andava al di là della propria immaginazione. Una missione per lei, salvare ciò che il tempo aveva corroso e danneggiato fino a renderlo irriconoscibile. Le ore di lavoro non le pesavano per niente, anzi le divorava, con la convinzione che fossero sempre poche, un unico obiettivo, liberare le opere dagli strati del tempo e far rinascere il colore originario.

Amava affrescare… e la tecnica di realizzazione, consisteva nell’applicare il colore, sotto forma di pigmenti macinati, direttamente sull’intonaco fresco per favorire la carbonatazione della calce, una reazione chimica tra la calce presente nell’intonaco e l’anidride carbonica dell’aria che favoriva il fissaggio dei colori, di origine minerale, vegetale, e animale.  Il ceruleo, detto blu egizio o fritta, era ottenuto cuocendo in una fornace sfere di rame, fior di nitro e sabbia, precedentemente macinati ed inumiditi. Il cinabro era un rosso (rosso pompeiano) derivante dal solfuro di mercurio, dall’effetto vivo e lucente, proveniente dall’Asia Minore dalle miniere nei pressi di Efeso e dalla Spagna.

Ma quel blu, così intenso, così corposo, stava diventando una vera ossessione per lei. Erano giorni che andava dietro a quel blu oltremare, variazioni, sfumature, eppure quel blu intenso non riusciva a riprodurlo.

La Venere se ne stava lì ad attendere, mollemente distesa sulla sua conchiglia, trasportata dalle onde e in compagnia dei due amorini; aveva da tempo arrestato la sua nascita, sepolta sotto strati di detriti e polvere, in parte sgretolata, ma ancora presente e pronta a venir fuori in tutto il suo splendore.

Si trattava di uno degli affreschi più significativi di Pompei, risalente al primo secolo avanti Cristo. Una delle prime testimonianze pittoriche legate alla mitologia Greca, che raffiguravano la nascita di Venere come dea della bellezza e dell’amore, nascente da una Conchiglia.

La “Casa della Venere in Conchiglia”, che fu riportata alla luce solo nel 1952, aveva da sempre custodito questo bene prezioso e finalmente poteva mostrarlo in tutto il suo splendore.

Sfortunatamente l’edificio era stato gravemente danneggiato dal bombardamento del 1943 e fu scavato solamente nove anni dopo rivelando, nell’ala sud, uno splendido giardino e una notevole fauna.

Per restaurare quell’affresco ci vollero mesi, ma il giorno dell’inaugurazione, tutte le fatiche sembravano solo un lontano ricordo.

La casa possedeva un bel peristilio affrescato dove venivano riprodotti elementi tipici dei giardini: siepi, sculture, fontane.

Alla destra della Venere vi era dipinta una fontana dove alcuni uccelli andavano ad abbeverarsi mentre a sinistra vi era raffigurata la statua di Marte. Nel pannello centrale, trionfante, come se un sipario si aprisse sul mare, si scorgeva la figura di Venere dai capelli ricci distesa nella sua conchiglia, nuda ma coperta di gioielli, accompagnata da due amorini dirigersi verso Pompei, città di cui era protettrice.

ALK@art

 

 

Fonte immagine: A Pompeian mural of Venus Anadyomene