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Bisso seta del mare

“Il mare spesso parla con parole lontane, dice cose che nessuno sa.
Soltanto quelli che conoscono l’amore possono apprendere la lezione dalle onde, che hanno il movimento del cuore.”

 

Così scriveva il giornalista e scrittore italiano Romano Battaglia, e chissà che tra i segreti custoditi dai marinai e dalle donne del luogo ci fosse anche la lavorazione del bisso, definito ‘il filo dell’acqua’, impercettibile al tatto, evanescente, forte, luminoso e prezioso, anzi preziosissimo. Tradizione per pochi eletti, poiché nasceva da un canto, da misteriose parole tramandate di madre in figlia che ne accompagnavano la filatura. Conosciuto anche come ‘seta del mare’, la sua lavorazione con telai in canne, si otteneva dai filamenti che secernono le Pinna nobilis, grandi molluschi bivalve conosciuti anche come nacchere, che tramite questi stessi filamenti si ancoravano ai fondali sabbiosi. Da questi ciuffi di filamenti aggrovigliati, dopo paziente e accurato trattamento di cardatura, lavaggio e filatura, si poteva ottenere del prezioso tessuto serico, finissimo (il cui filamento si assottigliava a 2/100 di millimetro senza perdere la sua resistenza allo strappo) dalla aurea rilucenza e dalle proprietà ignifughe. Da abbondanti raccolte del mollusco si ricavava sufficiente filo per realizzare tessuti o ricami a impreziosire vesti di personaggi di alto rango sia nel clero che tra gli uomini di politica, persino nello spettacolo come danzatrici e celebri etère, chiunque dovesse apparire e rifulgere di luce, doveva indossare vesti in bisso. Ecco, allora come le sue origini si perdono nella storia di antiche civiltà, erano di bisso gli abiti di re Salomone, di sovrani e potenti, veniva raccolto dalle donne dell’acqua, sacerdotesse del mare che vivevano sulle sponde del Mediterraneo. Sicuramente gli abitanti della Sardegna antica, gli industriosi Cretesi, i Fenici provetti commercianti, i più lontani ma raffinatissimi tessitori e tintori Caldei e persino gli Egizi furono i maggiori protagonisti della millenaria storia del bisso. E vi era una vera e propria industria del bisso come quella della porpora, supportata da manodopera abbondante e a buon mercato – basta pensare alle sempre nutrite schiere di schiavi – .
Ci chiediamo cosa rimanga oggi di questa sapiente lavorazione del bisso, e a risponderci c’è la preziosa testimonianza di Chiara Vigo, sessantenne dal volto mediterraneo, tratti decisi, espressione volitiva che vive a Sant’Antioco, lembo di terra trattenuto dalla Sardegna attraverso un piccolo istmo. La sua arte le arriva dalla nonna, passata attraverso i gesti e le parole che la investono di sacralità. Sono i canti che Chiara Vigo intona a ogni alba di fronte l’orizzonte. Sono le lezioni che impartisce a chiunque arrivi nella sua stanza, il Museo del Bisso di Sant’Antioco, lo è l’insistere sui tempi necessari per fare le cose (“ci voglio 3 primavere per filare 12 metri di bisso ritorto, 5 anni per un unghiato di 40 per 50 centimetri”). E sono sacre le forme, sempre simboliche e dense di messaggi, di ogni disegno. Sciamanico è il suo modo di porgere un filo a chi la va a trovare. Racconta così come nasce la sua arte: “Ho imparato da mia nonna a nuotare in apnea nelle acque della laguna” e ancora “Tornare a casa e dissalare la fibra, in seguito comporre il colore con le bave marine delle conchiglie e con le erbe. Tutto nasce dal fatto che il racconto orale e i gesti di mia nonna mi sono congeniali, lei ha tessuto dentro di me un arazzo che non sarebbe possibile disfare”. Un segreto, un patto quasi iniziatico che ha custodito per tutta la vita, una rivelazione la sua, così immediata e così semplice che solo un animo puro e genuino può carpire, con l’assoluta consapevolezza che il mare a chi lo sa osservare con cuore sincero, può svelare infinite meraviglie.

 

A Chiara, alla sua profonda umanità che racconta molto più di quanto dica…

ClarKinstyle

 

Fonte immagine: uniupe.it